La Fattoria
Una nuova recluta dell’accademia agricola di Atlas1 arriva alla fattoria per iniziare il suo primo lavoro.
La luce del tramonto e la polvere del fieno entrano dalla finestra aperta e inondano la stanza. Mi affaccio. L’odore di letame ed erba tagliata si fa più forte. Tre mucche in attesa di entrare nella sala di mungitura sono sorvegliate da un operatore. Le altre pascolano nel recinto, di fianco alla distesa di pannelli solari. Tre tecnici sono impegnati ad aggiustarne gli impianti. Uno di loro è umano. Un drone passa sopra le loro teste, supera la serra di coltivazione idroponica e si precipita verso le piantagioni di pomodori. Perde quota e inizia a sorvolare il campo, forse per operare la mappatura termica del terreno.
Respiro a pieni polmoni. Dopo tanto studio all’accademia agricola, ora ho finalmente un lavoro. E una stanza tutta per me.
Chiudo la finestra e mi volto. L’operatore è ancora sull’uscio con gli occhi disegnati sullo schermo del visore puntati su di me.
Il letto appoggiato al muro scrostato non è tanto grande, ma andrà bene. L’armadio a due ante è di legno massello, deve essere piuttosto antico, non ne fanno più così. L’anta di sinistra è piena di piccoli buchi, forse butterata dalle tarme. C’è anche un tavolo e una lampada appoggiata sopra. Provo ad accenderla. Nulla.
Guardo l’operatore. Lui è impassibile, gli arti meccanici lungo i fianchi.
«Non è ancora passato il tramonto. Appena farà buio, potrai accenderla.» La voce elettronica ricorda quella del tutor dell’accademia.
«Oh, giusto.» Di fianco alla scrivania c’è una porta. «Quello è il bagno?»
«Sì.»
Fantastico! Non ho mai avuto un bagno privato. Appoggio la mano sulla maniglia.
L’operatore si mette di profilo e fa cenno di uscire. «Lo visiti dopo. Ora devo presentarti il signor Pinto. Sarà il tuo mentore per il tuo primo mese qui.»
«Va bene. Non vedo l’ora di iniziare.»
Porto la mano sul badge appeso al collo. Il mio nome, la mia foto e il mio nuovo numero di matricola. Faccio parte del mondo dei grandi, ora. Forse avrei dovuto radermi il viso prima di farmi fotografare, però.
Seguo l’operatore fino al piano superiore dell’edificio. Percorriamo un corridoio con diverse porte allineate da entrambi i lati. L’operatore si ferma davanti a una porta e bussa.
Un signore sulla cinquantina si affaccia. Indossa una camicia sporca e logora e ha il viso sporco di terra. Deve essere il signor Pinto.
L’operatore fa un passo avanti. «L’apprendista è arrivato. Vi lascio perché possiate iniziare la formazione.» Gira i tacchi e torna da dove siamo venuti.
Il signore continua a fissarmi. Mi guarda come se avesse visto un fantasma. Che devo fare?
«È un cattivo momento, signore?»
Scuote la testa e cambia espressione. «No, perdonami. Sono solo stanco. Entra.» Spalanca la porta. «Il lavoro nella terra distrugge tutti. Ma distrugge soprattutto quelli della mia età. Per questo sei qui. Abbiamo bisogno di forze fresche.» Ridacchia.
La stanza sarà grande almeno il doppio rispetto a quella che hanno assegnato a me. Ed è pulita. A sinistra la scrivania fa da appoggio a quattro schermi. Uno mostra un elettrocardiogramma in movimento e la foto di una vacca. Alla base della foto compare il nome Penelope. Lo schermo a fianco mostra i dati di pH del suolo. I due schermi superiori sembrano dedicati al monitoraggio del clima e dell’inquinamento. Adiacente alla scrivania, un altro tavolo più basso dispone di due schemi che mostrano le immagini trasmesse dalle telecamere nell’ambiente esterno.
Il signor Pinto viene verso di me. «Vieni dall’accademia agricola statale?»
«Sì, signore.» La mia schiena di irrigidisce. Cosa accade ora? Forse vuole interrogarmi, vuole testare la mia preparazione.
«Non avere quell’atteggiamento da scopa nel culo. Siamo contadini, non soldati.» Prende la sedia infilata sotto la scrivania e mi fa cenno di sedermi. Lo assecondo. Raggiunge un’altra sedia dal lato opposto della stanza. La trascina davanti a me e si siede anche lui. Mi ricorda il professor Price. No, forse il panettiere dell’accademia. Non saprei, ma ha un che di familiare.
«So che arrivate qui sempre più preparati. E so anche che il novanta per cento delle cose che ti hanno insegnato non ti servirà. Almeno non per il primo periodo.» Indica la finestra dietro di lui con il pollice. «In pratica il tuo lavoro sarà stare là fuori e zappare come un dannato. Gli operatori non hanno la nostra manualità, il nostro tocco. E inoltre quelli come te costano meno dei robot.» Si passa la lingua sulle labbra secche. «Sei un orfano anche tu?»
«Sì, signore. Non ho mai conosciuto i miei genitori. Sono stato affidato al Governo e sono stato formato dalle scuole statali fino ad arrivare all’accademia agricola.»
«E sei cresciuto in zona, immagino?»
Annuisco.
Sposto lo sguardo verso i monitor. Il grafico dell’elettrocardiogramma raggiunge nuovi picchi. Forse Penelope è entrata nella sala di mungitura ed è agitata. Non vedo l’ora di entrare in quella sala, di lavorare e diventare il miglior allevatore della città. Sono stato addestrato per questo.
Il signor Pinto schiocca le dita davanti alla mia faccia.
«Resta con me, ragazzo.»
«Chiedo scusa. Sono solo molto eccitato all’idea di iniziare.»
Lui si distende sullo schienale della sedia e accavalla le gambe. «Perché? È tutto ciò che hai sempre sognato?»
Gli occhi azzurri sono fissi su di me. Il suo sguardo sembra denudarmi. Deglutisco. «Sì... È ciò per cui sono stato istruito.»
«Meritavi di più...» I suoi occhi diventano gonfi e lucidi. Questa sessione formativa è proprio strana.
«In che senso?»
Il signor Pinto scatta in piedi. Lo schienale della sedia rotea su sé stesso. Si avvicina alla finestra e scruta il vuoto oltre il vetro. La luce che si riflette nei suoi occhi li fanno sembrare dello stesso colore del ghiaccio.
Sospira. «Devo raccontarti una storia.»
«Che storia?»
«La storia di questo luogo.»
***
Affiancano il recinto delle galline e si immettono sul sentiero. Sono neri e lucidi. Il loro modo di camminare è meccanico e le loro gambe emettono un fastidioso rumore ferroso, come quello dei cingoli. Al bivio del sentiero svoltano a destra e scompaiono dietro al fienile. Li chiamano controllori, a volte operatori. Molti, ancora non abituati a vederli camminare in mezzo a noi, li temono. Per me sono strani, irreali. Ma si sono sempre dimostrati gentili. Ci controllano, dicono. A me fanno semplicemente i complimenti per come gestisco i miei affari e mi portano la posta di Stato.
Il volantino giallo che mi hanno consegnato si è già stropicciato nella mia mano sudata. Lo distendo. La foto di un edificio moderno di cemento che assomiglia a una centrale nucleare occupa quasi tutta la pagina. Il titolo nero sotto la foto risalta sullo sfondo giallo. Non è una centrale nucleare.
Inaugurazione dell’innovativa accademia agricola pubblica.
Un ottimo modo per incentivare i giovani a dedicarsi alla terra. C’è sempre più bisogno di talenti qualificati, specialmente ora che il lavoro nella terra e con gli animali è largamente supportato dalla tecnologia. Ma io ho già Alex che mi aiuta nei campi e con gli animali. Non ho bisogno di assumere nessun nuovo manovale, e le cose alla fattoria vanno più che bene. Accartoccio il volantino e lo infilo in tasca.
Dal sentiero dietro al fienile sbuca una donna che avanza rapida nella fattoria. I capelli biondi ondeggiano sulle spalle. È Cristina. La bellissima Cristina. Rientro in casa e prendo una cassa con le bottiglie di latte appena munto. Esco e le vado incontro.
«Sei qui per queste?» Indico con gli occhi le bottiglie di latte.
Lei sorride e sgrana gli occhi come se avesse visto una miniera d’oro. «Ciao Ettore! Sì, le hai già preparate!»
Tira fuori lo smartphone dalla tasca della tunica azzurra. «Quanto ti devo?»
«Hai trovato un lavoro?»
Cambia espressione e abbassa lo sguardo. «Purtroppo no, non ancora.»
«E allora non mi devi niente.»
Lei inclina la testa. «No dai, non questa volta.» Il vento solleva ciocche dei suoi capelli, che si confondono col campo di grano dietro di lei.
«Questa mattina ho anche fatto del pane.» Indietreggio verso l’entrata di casa. «Ne vuoi un po’?»
«Volentieri. Ma lo pago. Non posso continuare a rubare dalla tua fattoria.» Agita lo smartphone davanti a me. «Ho ancora cinquemila sats da parte e potrei pag—»
«Non se ne parla. Non stai rubando niente, sono regali. E poi preoccupati dei tuoi due figlioletti e di trovare un lavoro. La fattoria non andrà certo in rovina per del pane e qualche bottiglia di latte.»
Le passo la cassa e lei è costretta a riporre lo smartphone nella tasca. Ho sempre paura che quelle braccine non reggano il peso.
Corro dentro casa e infilo quattro pagnotte in una busta. Torno da Cristina e la poso sulla cassa di latte. La busta bianca le copre metà del viso.
«Forse ti serve una mano a portare tutto a casa.» Rido. L’ho caricata come un mulo.
«No. Sei stato già troppo gentile, anche oggi.» Si guarda attorno. Il suo sguardo si posa su Guenda che bruca l’erba fresca. «E poi venire qui è sempre un piacere. Questo posto è un paradiso.» Guarda la mucca come se ne fosse innamorata. Alza il naso al cielo e chiude gli occhi. Sospira.
Anche lei ama questo luogo.
«Senti… le vendite stanno andando bene. Al mercato giù in paese vengono sempre più persone e spesso io e Alex non riusciamo a stare dietro ai raccolti.» Indico l’orto. «Perché non vieni a lavorare qui? Facciamo una prova.»
Il suo viso si illumina. Più del solito. «Davvero?»
«Sì. Ti aspetto domani mattina. Ora va, prima che quella cassa ti sotterri. E salutami Terry e il piccolo Jo.»
Si allontana con il latte e il pane e scompare dietro il fienile.
Entro in casa. La cucina è ancora impregnata dell’odore del pane sfornato poco fa. Proseguo verso il salotto e mi siedo sul divanetto. Prendo lo smartphone e attivo lo schermo olografico. Sulla parete del soggiorno compare il notiziario. Sgrano gli occhi. Le immagini mostrano le colline coltivate che stanno proprio qui dietro. Sono accompagnate da una voce femminile di sottofondo.
«L'esecutivo punta a ridurre entro il 2095 del settanta percento le emissioni di gas serra, in particolare quelle dovute a fertilizzanti e reflui zootecnici, che danneggiano l'ambiente.»
Ancora questa storia. Lasciateci lavorare in pace.
«Il Governo Mondiale ha definito la proposta una transizione inevitabile che mira a migliorare la qualità dell'aria, della terra e dell'acqua e hanno avvertito che non tutti gli agricoltori potranno continuare la loro attività.»
Ma senti che cazzate. E cosa vorrebbero fare, portarci via i campi? Non credo arriveranno a tanto, ma per fortuna io uso quasi sempre fertilizzante naturale, e le tecniche che mi ha insegnato il nonno. Ma gli impianti sono moderni ed efficienti.
Disattivo la proiezione. Meglio cenare subito e andare a dormire. All’alba faremo la mungitura.
*
Il sole arancione fa capolino dalle colline. Quattro vacche sembrano volersi godere il panorama insieme a me. Le altre quattro fanno uno spuntino col fieno, vicino all’ingresso del recinto.
Dei passi dietro di me calpestano l’erba. Mi volto. Alex si avvicina, armato con cinque grandi secchi di metallo, tre infilati in un braccio e due nell’altro.
«Buongiorno, Ettore. Ci mettiamo al lavoro?» Fa cadere i secchi a terra.
«Buongiorno. Sì.» Prendo tre secchi e seguo Alex verso Guenda, impegnata a scrutare il vuoto.
Alex le dà una pacca sulla schiena maculata. «Hai sentito le notizie di ieri?»
«Sì, roba strana. Non posso dire di essere in disaccordo. Tutti devono fare la propria parte per proteggere il pianeta.»
Emette un brontolio. «Anche se questo comporta perdere la fattoria che è gestita dalla tua famiglia da generazioni?»
«Questo posto è tutta la mia vita. E se ci sono dei miglioramenti da fare, li farò.» Mi chino sulle gambe e accarezzo l’erba umida. «Ma lo sai che sono già molto attento a rispettare la bellezza che ci circonda. Non avremo problemi.»
Alex sbuffa. «Altroché.»
«Hai qualcosa da ridire?»
Lui alza le mani. «Dico solo che potremmo produrre e vendere di più se utilizzassimo fertilizzanti migliori e se perdessimo meno prodotti utilizzando qualche pesticida. Ma tua la fattoria, tue le decisioni.»
Proprio così.
Metto il secchio sotto il ventre di Guenda. Alex mi picchietta la schiena. «Hey, guarda.»
Mi tiro su. Alex sta indicando il cancello aperto della fattoria. Due androidi vengono verso di noi.
«Che vogliono questi?»
«Sono passati anche ieri. E anche tre giorni fa. Portano comunicazioni del Governo, pubblicità dei progetti, queste cose qui.»
Una delle due macchine si avvicina a me. «Buongiorno. Avvicinare lo smartphone, prego.»
Faccio come dice. L’androide solleva la mano meccanica sul dispositivo. Bip!
«Contratto inviato.» Ritira il braccio e lo porta dietro la schiena curva.
Il mio smartphone mostra un documento scritto in modo fitto. Il titolo è invece a caratteri cubitali.
Proposta di acquisizione Fattoria del Verde.
Abbasso lo smartphone. «Che significa?»
La visiera elettronica dell’androide emette una luce intermittente verde. «Il Governo si propone come acquirente della sua fattoria, concedendo a lei il centoventi percento del suo valore.»
«E perché dovrei vendere la mia fattoria?» Rinfilo lo smartphone in tasca.
«Il suo allevamento è stato selezionato per il programma Green2095.»
«E che vuol dire?»
Mi volto verso Alex. Sta sudando. Avvicina la bocca al mio orecchio. «Penso voglia dire che vogliono smantellare la fattoria.»
«Cosa?! Perché?» Faccio un passo verso l’androide. La sua visiera e quella del suo compagno si illuminano di rosso ed emettono un fischio. «Rilevato atteggiamento ostile.» Estraggono dalla schiena due pistole.
Alex fa un passo indietro. «Ma che cazzo?»
Alzo le mani. «Voglio solo capire. È per la questione dell’inquinamento? Gli impianti sono nuovi, i fertilizzanti naturali, non usiamo pesticidi.»
«Mi dispiace, signore.» Ruota il capo meccanico verso Guenda. La visiera è tornata nera. «Le emissioni gassose di questi animali determinano problemi di odori e dispersioni in atmosfera di ingenti quantità di metano e gas a effetto serra.» Si volta di nuovo verso di me. «Le chiediamo di valutare urgentemente la generosa proposta del governo. Torneremo domani per un riscontro.»
Un rumore umido e schioccante mi fa sussultare. Un odore di merda riempie l’aria. Mi volto verso Guenda. Ha scorreggiato.
I due androidi scattano in posizione di combattimento. Le visiere sono di nuovo illuminate di rosso. «Evento ostile. Pianeta in pericolo. Neutralizzare il nemico.»
Il nemico?
Puntano le armi contro Guenda.
«No!»
Un colpo esplode da ognuna delle due pistole. Centrano Guenda in pieno volto. Due aloni rossi di disegnano tra il muso e l’occhio. Cade a terra con un tonfo.
Mi butto su di lei.
«Guenda…» gli occhi aperti sono senza vita.
I due androidi rinfoderano le armi dietro la schiena.
«Minaccia neutralizzata.» Si voltano e si dirigono verso il sentiero. Incrociano Cristina che attraversa il cancello, accompagnata dai piccoli Terry e Jo. Tempismo perfetto…
È un incubo. Sto per svegliarmi. Deve essere così.
Alex si china e mi poggia una mano sulla spalla. «Hey, amico…» Ha il volto paonazzo. «Mi dispiace.» La sua voce trema, se la sta facendo sotto anche lui e sta provando a rimanere calmo. «Non è più sicuro rimanere qui.»
Non può dire sul serio. «E dove dovrei andare?»
Il cuore mi batte nel petto come un tamburo impazzito. «E da quando gli androidi usano la violenza contro di noi?»
«Tecnicamente hanno usato la violenza contro una mucca… ma è allucinante, sì. Avranno ricevuto un aggiornamento che li porta a considerare le flatulenze degli animali come una minaccia globale e hanno reagito di conseguenza, credo.»
È tutto surreale.
«Dio mio, cos’è successo?!»
Cristina è alle mie spalle. Mi alzo, a momenti perdo l’equilibrio. Ho una nausea fortissima. I due bambini stringono la gonna della madre. Jo fissa il cadavere di Guenda e scoppia a piangere. Si nasconde tra le pieghe della gonna azzurra.
«Sono stati quei due che ho visto uscire dalla fattoria?» Dà una carezza a Jo.
«Va tutto bene, amore mio.» Mi guarda. «Forse dovremmo spostarci un attimo da qui.»
«Va bene.»
*
Tiro lo scarico del bagno. Giro il rubinetto e mi sciacquo la bocca. Metto le mani a conchiglia e lascio che il flusso d’acqua fredda le riempia. Mi getto l’acqua sulla faccia. Allo specchio la mia pelle è pallida come neve e i miei occhi sono di un blu slavato. I capelli neri sono appiccicati alla fronte. Sembra di guardare un cadavere.
Scendo le scale e sbuco in soggiorno. Alex è seduto vicino al tavolo e Cristina è sul divano, tra Terry e Jo.
Si alza e viene verso di me. «Hai vomitato?»
Annuisco.
Si massaggia il ponte nasale con le dita. «Alex mi ha raccontato tutto.»
Lui picchietta le nocche sul tavolo. «E lei invece mi ha raccontato della vostra conversazione di ieri. Non sapevo assumessimo personale.»
Mi poggio di peso contro la parete. «È questo che ti disturba al momento?»
«No, era tanto per dire…» Sospira. «Che intendi fare, comunque?»
«Certo non venderò a nessuno la mia fattoria.»
Caterina porta i pugni sui fianchi. «Ettore, capisco perché dici così. Ma riflettici: ti hanno fatto una buona offerta. So che ami questa vita, ma con quel denaro potresti comprare un’altra fattoria, magari in un luogo dove non esistono queste agende assurde.» Prova a sorridere, ma le riesce male. «Potresti ricominciare. Potremmo farlo insieme, se sono ancora inclusa nel progetto.»
«Certo che lo sei.»
Mi infilo la mano in tasca e prendo lo smartphone. «Non c’è bisogno di gesti estremi. Deve essere tutto un malinteso. Chiamo la polizia.»
«La polizia…» Alex virgoletta con le dita. «Ti ha appena ammazzato una mucca.»
«Voglio parlare con un essere umano.»
«Intendi uno di quelli che hanno programmato quei cosi per fare esattamente ciò che hanno fatto?»
Scaravento lo smartphone a terra. «Ma tu vuoi darmi una mano o cosa?!»
«È quello che sto provando a fare!»
«Calmatevi.» Cristina prende il mio smartphone da terra e me lo passa.
«Mamma.» Jo è in piedi di fianco a lei, le strattona il vestito. «I robot sono cattivi, vero?»
Terry balza giù dal divano. «Hanno fatto del male alla mucca di Ettore. Ed Ettore è bravo con noi. Quindi i robot sono cattivi.»
«Calmatevi anche voi, per favore.» Cristina mi viene affianco e abbassa la voce. «Possono salire su?»
«Sì, certo.» Passo il mio smartphone a Terry. «Se volete potete andare in camera mia, di sopra. Potete accendere gli schermi e guardare quello che vi piace.»
«Ma noi vogliamo combattere!» Terry batte un piede a terra. Cristina si china e la prende per le spalle. «Terry, vai subito su e porta tuo fratello con te. Adesso.»
I bambini obbediscono e salgono le scale.
Alex ridacchia. «Hanno le palle, i tuoi figli.»
«Sento che loro non sono al sicuro, qui.» Si volta verso di me. «Ettore, io non posso rimanere.»
«Solo per questo incidente? Tu non dovresti neanche preoccuparti, non sei tu la proprietaria della fattoria.»
«Non mi interessa. Non faccio crescere i miei figli in un luogo dove è considerato normale ammazzare un animale che scorreggia. Non ho la fattoria, non ho niente di niente, in effetti. Non c’è nulla che mi trattenga qui. Posso tranquillamente fare la fame da un’altra parte.»
Alex si alza e va verso il frigorifero. Prende una bottiglietta d’acqua e beve. «E poi è sempre così. Quanto tempo passerà prima che ammazzino anche gli esseri umani che scorreggiano?»
Gli strappo la bottiglietta dalle mani. «Riesci a rimanere serio?»
Cristina cammina agitata per tutto il salotto. «Sull’idea in generale, sono d’accordo con Alex.» Viene di nuovo verso di me. «Andiamo via, lontano. Costruiamo qualcosa di nuovo, insieme. Vivremo liberi, nella natura. È questo quello che vuoi.»
«Io voglio vivere in questa natura. In questa fattoria. Non un’altra.»
«E come pensi di farlo?»
«Mi adeguerò alle regolamentazioni. Dimostrerò che l’impatto ambientale della mia fattoria è minimo.»
Alex si lascia andare di nuovo sulla sedia. «Metterai un tappo nel culo delle tue sette mucche rimaste e impedirai loro di scorreggiare e cagare fino a che non esplodono?»
«Farò tutto quello che serve.» Compreso licenziarti a calci in culo. Mi sto stancando di questo atteggiamento. Facile per loro, senza radici, parlare così.
Alex sbuffa e guarda Cristina. «Ma è serio?»
Cristina alza le braccia in segno di resa. Ora inizio anche a sentirmi preso in giro.
«Andrò a fondo di questa storia, questo sì. Ma deve essere stato un errore nel sistema di quelle macchine. In linea di principio, quello che vogliono è corretto. Dobbiamo essere responsabili verso l’ambiente.»
«Con i tuoi prodotti e le tue vendite sfami a mala pena una decina di famiglie. Che cazzo di impatto pensi di avere sull’ambiente?»
«Se ragioniamo tutti così, la natura che tanto amate anche voi farà presto una brutta fine.»
«Sarai tu a fare una brutta fine, Ettore.»
Balzo verso di lui e lo prendo per il colletto della camicia. Il culo di Alex si solleva dalla sedia. Chiudo il pugno e lo schianto contro il suo occhio. Lui rotola all’indietro e finisce con la schiena a terra, insieme alla sedia. Geme di dolore.
Cristina ha le mani davanti alla bocca.
Prendo ancora Alex per la camicia e lo tiro su. Ha già l’occhio gonfio. «Vattene.»
Alex si divincola. Cristina si mette in mezzo a noi. «Hai esagerato.»
«Lascia perdere. Vuole che me ne vada, me ne vado. Lo avrei fatto comunque.»
Esce dalla stanza. Il cigolio della porta arriva dall’ingresso. Sbatte così forte che fa tremare le pareti della casa.
Fantastico, ho perso un dipendente. «Meno male che si sei tu, Cristina.»
Lei guarda fuori dalla finestra. «Sei stato la mia salvezza, Ettore.» Una lacrima le riga la guancia. «Ma se entro domani non riusciamo a fare luce su questa situazione a modo tuo, anche io me ne andrò.»
Cammino verso di lei e le prendo le mani. «È la prima volta che passiamo del tempo insieme in questa casa. Mi dispiace che accada in questa circostanza.»
«Anche a me.» Espira, come se volesse evitare di piangere.
«So che devi proteggere i tuoi figli. Se vorrai andartene, lo capirò. Permetti anche a me di lottare per ciò che è mio.»
Le accarezzo il volto e le do un bacio. «Potete dormire qui, questa sera. Tu e i bambini. Ho una stanza per gli ospiti.»
*
Cristina è china sulle piante di pomodori. Le foglie le coprono il viso. Fa capolino per dare uno sguardo ai bambini. Terry e Jo si rincorrono tra le spighe. Terry mi vede e mi saluta con la manina. Jo la imita.
«Avete dormito tutti bene?»
Cristina mette nella cesta l’ultimo pomodoro. «Benissimo, grazie!»
Le occhiaie le arrivano fino agli zigomi: non ha chiuso occhio. Le do un bacio sulla guancia. «Già a lavoro?»
Lei sorride. «Beh, sì… Alex è andato via e qui c’è tanto da fare.»
«E poi continuare a rimanere in camera a guardare il soffitto da ieri sera non aveva senso.»
«Già, anche quello.» Prende la cesta piena di pomodori. «Nessuna novità dalla polizia?»
«Ho continuato a chiamarli per tutta la notte. Nulla. Al massimo mi fanno parlare con guide virtuali o androidi.» Le faccio cenno di passarmi la cesta.
«Portiamola al deposito.» Mi dirigo verso la casetta di mattoni vicino al cancello.
Lei annuisce. «Hai pensato meglio a quanto accaduto ieri?»
«Sai, ho pensato di spostare le mucche in quell’altro recinto.» Indico la staccionata di fianco al fienile.
Lei scruta il suolo. «Ma non c’è erba lì, è tutta terra.»
«Appunto: doserò i pasti. Piccoli e frequenti. In questo modo le flatulenze dovrebbero ridursi. Ho anche ordinato degli additivi per il mangime a base di alghe che riducono la produzione di metano.»
Cristina corruga la fronte. «Ok…»
«Inoltre ho scoperto che l’università di Auckland ha progettato un sistema di addestramento per le vacche che insegna loro a usare un apposito gabinetto, dove le feci vengono trattate in modo da ridurre le emissioni.»
Apro la porta della casetta e poso i pomodori sul davanzale di legno tra le cassette di melanzane e i sacchi di farina.
«Non sarà facile affrontare questi investimenti. Ma se lavoriamo sodo ce la faremo. Mostrerò i progressi fatti e la fattoria sarà salva.»
Esco dal deposito. Cristina mi segue.
«C’è solo un piccolo problema.»
«Quale?»
«Gli androidi torneranno oggi e vorranno una risposta. Si aspettano che tu venda la proprietà.»
Chiudo la porta del deposito. «Quando arriveranno proverò a convincerli.»
«Mamma! I robot cattivi sono qui!» Mi si gela il sangue. Mi volto.
Terry agita le braccia e indica in direzione del cancello. I due controllori vengono verso me e Cristina. Ormai conoscono i miei orari e sanno quando mi trovano qui fuori. È arrivato il momento.
Gli androidi si fermano davanti a noi. I bambini ci raggiungono. Cristina li guarda e porta l’indice sulle labbra.
«Avete firmato il contratto, signore?» L’androide mi fissa. Senza occhi, senza viso.
«No.»
Rimangono tutti in silenzio.
«Ho un’altra proposta, però.»
L’altro androide fa un passo avanti. «Nessuna proposta, signore. Deve firmare il contratto. O saremo costretti a denunciarla.»
«Fate pure. Almeno avrò l’opportunità formale di difendermi.»
Cristina mi dà una gomitata sul braccio. Mi schiarisco la voce. «Elaborerò un report ogni settimana affinché il governo possa monitorare i miei progressi sulla riduzione delle emissioni.»
«Il giudice di Governo stabilirà come procedere. Ma state rischiando l’esproprio della proprietà, signore.»
Mi avvicino all’androide. Tanto da vedere i pixel sulla sua visiera. «Non minacciarmi, macchina.»
I pixel diventano rossi. «Atteggiamento ostile.»
Jo sbuca da dietro le mie gambe e sferra un calcio alla caviglia di metallo dell’androide. «Robot cattivo!»
«Jo!» Cristina balza sul bambino.
«Aggressione.» L’androide estrae l’arma. Una scarica azzurra colpisce Jo sul petto. Trema e cade a terra.
Cristina si accovaccia su di lui. «No!» L’androide la colpisce con il braccio in pieno volto e lei rotola sull’erba. Prende Jo e se lo carica sulla spalla. «Programma di rieducazione di minore necessaria.»
Le urla di Terry mi spaccano il timpano.
Mi butto sull’androide. Cristina mi anticipa. Il secondo androide ha già la mira puntata su di lei. La scarica le centra la pancia e lei crolla a terra priva di sensi. Afferro Jo per la gamba che pende dalla spalla dell’androide. La visiera di pixel mi arriva sulla fronte, perdo l’equilibrio e sbatto il culo sul suolo. L’androide regge Jo con una mano. Nell’altra impugna il teaser, direzionato alla mia faccia. Spara un colpo. Il mio corpo pare trafitto da mille lance. La vista si offusca.
***
Il monitor continua a lampeggiare sul cuore di Penelope: il suo battito si è fatto più calmo. Il signor Pinto si stacca dalla finestra e torna a sedersi davanti a me. Mi guarda, come se si aspettasse che io dica qualcosa.
«E poi cos’è successo? Cos’ha fatto Ettore?»
Lui sospira. «È rinvenuto dopo qualche ora. Ed era solo. Cristina e la piccola Terry erano sparite. Non le ha ritrovate mai più.»
Alza gli occhi al soffitto. «Lui ha avuto successo nella sua impresa. All’inizio almeno. Gli androidi, quelli che ora chiamiamo operatori, lo hanno denunciato. Ma lui è riuscito a convincere il giudice a restare proprietario della fattoria con le garanzie che avrebbe ridotto le emissioni.»
«Quindi il signor Ettore è ancora il proprietario?»
Fa un sorriso nervoso. «Beh… no. Dopo pochi mesi la fattoria è fallita. Lui non riusciva più a lavorare come prima e i costi crescenti di gestione hanno fatto il resto.» Incrocia le mani dietro al collo. «È stato costretto a cedere gratuitamente la fattoria al Governo, in cambio di poter continuare a viverci e lavorarci.»
Sarebbe questa la mia sessione di formazione? Non mi sono mai sentito così a disagio.
«Ma perché mi stai raccontando tutto questo?»
Porta le mani sulle mie spalle. Gli occhi puntati sul mio badge. «Ancora non lo hai capito, Jo?»
Un brivido mi percorre la schiena. «Mi stai dicendo che sono io il Jo della tua storia?»
«Credevi che fosse una coincidenza?»
Vorrei parlare ma non riesco. So solo che voglio andare via di qui. Mi alzo e cammino verso la porta.
«Jo, ti prego, aspetta.» Il signor Pinto mi raggiunge e mi afferra il polso.
Mi divincolo dalla presa. «Non parlare come se mi conoscessi.»
«C’è una ragione se ti parlo così.»
«E quale sarebbe?»
«Ti voglio chiedere scusa. È tutta colpa mia. È colpa mia se sei qui.»
Mi gira la testa. Potrei vomitare da un momento all’altro. «È da tutta la vita che aspetto di iniziare questo lavoro. Sono esattamente dove voglio essere.»
«Non avere la mia stessa leggerezza. La leggerezza di Ettore Pinto.»
Cammino avanti e indietro per la stanza. Il pavimento di legno scricchiola. «Quale leggerezza?»
«Questo non è un lavoro. Non ti pagano, vero?»
«Mi danno vitto e alloggio. È così che funziona.»
«No, Jo!» Scatta verso di me. «Non è così che funziona.»
Indietreggio, urto la gamba del letto. «Solo perché non vengo pagato con il denaro?»
«Il denaro può corromperti. Ma può anche darti la libertà. Non fare la mia stessa scelta. Non diventare uno schiavo. Non perdere tutto ciò che hai, tutto ciò che ami.»
La testa continua a girarmi. Mi siedo sul letto. «Ma io non ho niente.»
«E allora vai.» Indica la finestra. «Vai là fuori e conquista il mondo. Il mondo non è come una volta, ma c’è ancora tanto spazio, tanta libertà.»
La testa mi pulsa. Mi tocco la fronte col palmo: scotta.
«Se la donna di cui hai parlato è veramente mia madre, perché non è mai venuta a cercarmi? E Terry, mia sorella?»
«Era l’inizio dei programmi di rieducazione dei minori. Vent’anni fa. Veniva usata qualunque scusa per togliere i bambini dalle famiglie. Famiglie problematiche o assenti, dicevano.»
Si siede sul letto di fianco a me. «Io non ho più visto tua madre. Ma ti amava. Sicuramente ti ama ancora, se è viva. Sono certo che ti ha cercato in tutti i modi. Come ho fatto io.» Mi mette una mano sul ginocchio. «Ma è diventato sempre più pericoloso fare certe domande. Mi capisci?» Strizza gli occhi e inizia a singhiozzare. «Poi ti ho trovato. Sapevo che frequentavi l’accademia agricola. Uno dei tanti. Abbiamo accesso al database degli studenti. Ho fatto in modo che tu venissi qui.»
«Volevi vedermi?»
«Volevo salvarti. Voglio salvarti. Non saresti il primo.»
Non capisco. Lui mi guarda. Sul viso ha un’espressione enigmatica. Lascia il letto e torna alla finestra. Mi fa cenno di raggiungerlo.
«Vedi quel pozzo?» Indica una struttura circolare di cemento vicino all’ingresso della fattoria. «Una volta c’era il mio deposito di ortaggi in quel punto. Prima di cedere la fattoria ho usato tutti i soldi che mi rimanevano per far costruire un passaggio che arriva fino alla spiaggia. Volevo creare un canale diretto con il porto per vendere le merci più velocemente.»
«E perché non l’hai mai usato per scappare?»
«Perché non merito di essere libero. Ma soprattutto perché, se fossi scappato, oggi non sarei qui a poter dire a te come farlo. E non avrei potuto dirlo ad altri ragazzi prima di te.»
Si sposta verso i monitor di sorveglianza. «Guarda: l’area del pozzo non è coperta dalle telecamere.» Sorride soddisfatto. «Non so quanto passerà prima che mi scoprano. Ma sono contento ogni volta che ho l’opportunità di salvare un’altra persona e che in questo caso quella persona sia proprio tu.»
Torna da me e mi abbraccia. È tutto così strano. Non ho mai avuto così paura in vita mia.
«Cosa faccio quando arrivo alla spiaggia?»
Gli occhi di Ettore si illuminano. «Cerca una piccola barca con lo scafo arancione. Chiedi di Alex. Lavoriamo insieme.»
«Alex?»
«Sì, è lui. Ti porterà alla sponda opposta. Da lì, attraversa la pineta e troverai una piccola cittadella fortificata. È una comunità indipendente. Si chiama Atlas2. Da lì potrai fare quello che vuoi.»
La fronte continua a pulsare, ma mi sento come se potessi spaccare il mondo in due. «Non vieni con me?»
«No, te l’ho detto. Devo salvare quante più persone possibili.»
Si affaccia di nuovo e guarda il cielo. «Sta scendendo la notte. È quasi il tuo momento. Attendi il buio nel tuo tugurio, scendi nel pozzo e nuota fino al sentiero sotterraneo. Percorrilo tutto.» Mi dà una pacca sulla spalla. «Sei diventato un uomo. Ora va.»
Cammino verso la porta come se avessi il pilota automatico.
«Jo?»
Mi volto. «Dimmi.»
«Non so se si tratta di una delle solite battute del cazzo di Alex. Ma qualche giorno fa mi ha detto di aver visto proprio Cristina, tua madre, sulla spiaggia vicino ad Atlas2.»
«Davvero?»
«Se quella dovesse essere davvero tua madre e se tu riuscissi a riunirti a lei… Beh, dille che…»
Sorrido. «Lo farò.»