La natura è il regno dell’ingiustizia. Dove vige la legge del più forte. Del più veloce. Del più scaltro. Del più adatto. Del più potente. Del più fortunato. Gli inadatti e gli sfortunati perdono quasi sempre. I fragili e i poveri spesso muoiono. La natura è spietata. Crudele, quindi bellissima, secondo alcuni. Perché la bellezza si fonda sulla differenza, sul dislivello e sull’imprevedibilità.
Per scrivere questo articolo mi avvalgo di uno dei capitoli di un libro del filosofo Claudio Marucchi, Scavando nell’Ombra. Il capitolo in questione si chiama Natura Splendida e Iniqua.
A parità di condizioni, ci possono essere esiti diversi. A volte vince il più veloce, a volte il più feroce. A volte il mimetismo salva la preda, a volte favorisce il predatore. È il contrario dell’uguaglianza e della giustizia, dove tutto è ovvio e sicuro. La natura è il trionfo della selezione. I vincitori campano a scapito dei vinti. Ci si salva grazie a chi soccombe. Non è mai scontato che a prevalere sia la forza del leone o la velocità della gazzella. Anche Davide può battere Golia. Ogni sfida è una scommessa, nella più assoluta incertezza.
E invece oggi l’incertezza viene tramessa come fosse un errore di sistema. Perché, come scrivevo in questo articolo, l’incertezza tipica del mondo aggiunta all’incertezza che ci mettiamo noi quando abdichiamo alla nostra facoltà di decidere crea un vero e proprio senso di angoscia che a sua volta è in grado di sottrarre materialmente la costruzione di un futuro. È abbastanza naturale che non piaccia, sebbene la sua esistenza non sia un’opzione.
Dall’altra parte abbiamo, invece, il linguaggio scientifico che ci piace tanto perché porta delle certezze nelle nostre vite. Spesso ci dimentichiamo che questo non è neanche del tutto vero, in quanto il metodo scientifico si basa su osservazioni e ipotesi. Ad ogni modo, la scienza rimane molto più attraente della filosofia e della spiritualità, che portano con loro lo scorrere incerto delle cose. Il linguaggio scientifico, o il linguaggio religiosamente scientifico, che è quello della certezza, viene dai più applicato a pressoché qualunque argomento. Sulla scienza stessa, sulla religione stessa, sulla politica più che mai, su nostri stessi limiti personali. Ultimamente un linguaggio religiosamente scientifico è stato spesso adottato persino in riferimento a Bitcoin. E infatti spesso in quest’ambito si trovano persone che, una volta percorsi alcuni gradini della scala, si trovano inesorabilmente impossibilitati nell’andare oltre. Quanto è rassicurante aver trovato una certezza nella propria vita? Un po’ come la vita di coppia: quanto è rassicurante la vostra di vita di coppia una volta che diventa certa? E quanto è felice?
L’eterno ciclo dell’adattamento può essere applicato a ogni cosa. Servono occhi in grado di osservare le variazioni del mondo che ci circonda e che non pretendano di volerlo vedere immutabile. Il mondo non è una blockchain.
Ecco che così oggi vogliamo superare incertezza e ingiustizia con la convinzione di poter risolvere problemi universali, il più delle volte tramite la tecnologia e le leggi. Tra questi problemi universali da risolvere, è inclusa anche la morte. Quando ci rendiamo conto di non esserne in grado passiamo alla fase di consegna del compito a qualche potente infallibile che iniziamo a idolatrare, messo lì con il dichiarato compito di creare e poi anestetizzare il nostro senso di angoscia.
Seneca parlava del Morire bene per fuggire dal rischio di vivere male. I flaggellanti hanno interpretato questo pensiero come una valutazione positiva del suicidio. Un altro modo di contrastare l’ingiustizia, quella che tanto accettiamo in natura ma che non accettiamo in società.
Questo accade perché la cultura si compie allontanandosi dalla natura. Può piacere o non piacere. Ad esempio, a me non piace. Ma è così. In questo senso, forse il progressismo era una corrente ideologica prevedibile fin dall’alba dei tempi. Con la cultura, non possiamo accettare un mondo che rifletta le istanze del regno animale. Neanche il capitalismo è accettabile ormai, con la sua competitività che mira a una crescita continua, come prosecuzione delle istanze naturali.
Ideale di giustizia
Perseguire altri ideali, come quello della giustizia, rievoca l’educazione e il contenimento delle pulsioni. Non a caso gli ideali sono prima spirituali, poi religiosi e infine politici.
La quiete contro l’appetito. La moderazione contro l’eccesso. La neutralità contro il conflitto. Tuttavia, la loro realizzazione si compie mediante la violenza. È infatti l’atteggiamento paternalista dello Stato, come del Dio di una religione, a celare spesso intenti educativi e moralismi dietro la scusa dell’informazione, di un’emergenza o del bene collettivo. L’informazione diventa propaganda. È facile che un interesse si debba travestire da ideale per poter raccattare più clienti: coinvolgere le persone in una missione collettiva che restituisca un minimo di senso e significato ai vuoti delle nostre esistenze.
Grazie a queste valide scuse, spesso afferenti a qualche forma di giustizia, lo Stato diventa in grado di invadere le libertà personali e le proprietà private.
La giustizia ideale ci vorrebbe tutti uguali, tutti alla pari. Ognuno dovrebbe iniziare la vita con le stesse materialità di partenza. Qualcosa di totalmente irrealizzabile.
Se ciascuno di noi è diverso da chiunque altro, un episodio unico nella storia dell’universo, è probabile che distinguersi da tutti abbia un significato. L’equità completa apre le porte all’inferno della noia. La giustizia compiuta è il trionfo della più piatta perfezione e prevedibilità. Nell’escatologia religiosa, quando il Regno della Giustizia trionfa una volta per tutte, la storia del mondo finisce. “Perfetto” significa “concluso”. La giustizia sarà quindi sempre un ideale verso cui tendere, ma che non si deve mai realizzare. Una direzione, non un approdo. L’equità non si accontenterebbe di veder partire tutti alla pari. Perché da pari possibilità avremmo esiti diversi, ecco di nuovo chi vince e chi perde. L’uguaglianza delle possibilità di partenza non farebbe che amplificare il merito.
Questo tipo di uguaglianza è uno dei fenomeni globali più discriminatori che ci siano mai stati. È ingiusto discriminare? A voi il giudizio. Io certamente giudico la discriminazione di tipo artificiale. Dove gli sconfitti sono vittime da riscattare e i vincitori sono sopraffattori. Un grande, nuovo problema morale che ci impone di fermarci per non lasciare nessuno indietro. Da qui la retorica del forte carnefice e della debole vittima. Una retorica che, tra l’altro, non tiene conto del fatto che nessuno è interamente forte o interamente debole, sempre vincente o sempre perdente, del tutto buono o del tutto cattivo. La giustizia e l’uguaglianza spinte all’estremo porterebbero tutti ad avere le stesse cose o le stesse idee. Molti cristiani non accettano di sentirselo dire, ma è questo che avvicina il cristianesimo al comunismo. Come dice Marucchi, più di quanto ciascuno dei due vorrebbe.
Il cristianesimo ha portato avanti questa battaglia di uguaglianza, riscatto degli ultimi, esaltazione della povertà e della sofferenza, proprio come compensazione verso l’avidità dei potenti e la cruda brutalità della natura. Un culto della fragilità e della sofferenza, della vittima, del lamento non è mai auspicabile. È facile che esalti il vittimismo. Accade ancora con i social e la TV: dateci anche oggi la nostra vittima quotidiana da riscattare, un offeso da rincuorare, un discriminato da compatire e ci sentiremo tutti più buoni e giusti.
La continua esaltazione delle vittime, la cui esaltazione ci rende certi di non essere nella loro condizione, è solo l’altra faccia della demonizzazione. Poter odiare sentendosi puliti e nel giusto, perché convinti di odiare chi merita odio. Trattare l’altro come nemico da odiare o poveretto da salvare: due poli della stessa discriminazione. Alla fine, l’importante è sempre che l’altro non sia tuo pari.
Nessun limite al bene
Eppure, il cristianesimo, espressione compiuta del sadismo, ha vestito anche i panni della Santa Inquisizione. Dillo a un cristiano e ti dirà che un conto sono i messaggi sacri e un altro conto sono gli uomini, sempre fallibili. E questo è certamente un discorso sensato, come lo sarebbe se applicato anche al comunismo, appunto, e ai suoi oggettivamente nobili ideali di giustizia.
Perché l’essere umano, piaccia o meno ai progressisti, resta fedele alla natura, alla fine. E la natura è prevaricazione, eliminazione della concorrenza, idealizzazione del proprio punto di vista.
Non vi è idealismo che sfugga alla necessità di distinguere, escludere, odiare chi si ritiene essere causa del male. Il problema è che ciascuno ritiene qualcun altro, singolo o categoria, come causa del male. Impossibile trovarsi tutti d’accordo. Dialettica e conflitto resteranno l’anima di ogni società fino alla nostra estinzione. Il progresso stesso lo esige.
Due anni fa scrivevo dell’oggettivismo egoista di Ayn Rand. Si tratta dell’Io e del proprio spazio sacro. Sentirsi prima un io che un noi. Non tutti conquistano il significato dell’io ecco la grande differenza. Una volta conquistato faticosamente il senso dell’io, è difficile pensare di tornare indietro, di diluirsi senza resistenze nel collettivo, nelle esigenze del gruppo.
L’invidia è una delle cause indirette della bellezza: spingere per essere superiori o migliori dei propri vicini. Una ponderosa spinta evolutiva alla base dello straordinario splendore estetico delle architetture dei nostri comuni: tutti sempre in competizione, quindi tutti impegnati a migliorarsi. Dietro all’io si cela l’archetipo del fallo. Dietro al noi quello della castrazione.
Il ruolo individuale
La nostra vera natura ci toglie le speranze verso l’idea di un futuro perfetto. Per fortuna. Sappiamo che non ci saranno illuminazioni collettive, né da un senso né dall’altro. Come se il mondo fosse un enigma da risolvere. La soluzione è nel singolo individuo. Ma se ti illudi che tutti dovrebbero fare come te, perché solo così il mondo sarebbe un posto migliore, vivrai da frustrato, perché la realtà non corrisponderà mai ai tuoi desideri. Allora diventerai più crudele. Il tuo contributo al mondo, alla fine, sarà il disprezzo.
Verso il bene si tende, ma nel male si inciampa. Perché il bene è sempre ideale. Non si realizza mai totalmente. Il male invece è sempre reale. Non ce ne si libera mai totalmente.
Oggi, accanto al collettivismo, vige un individualismo ipocrita. Io sono così. Sono libero. Sono diverso.
Il potere di chi è diverso, consiste proprio nel suo essere diverso. Che cosa se ne dovrebbe fare dell’inclusività? Normalizzare gesti, parole, azioni e costumi trasgressivi è l’ultimo passo per addomesticarli. Perdono quindi ogni potere trasformativo.
Oggi vogliono tutti essere diversi. Giustamente, perché in fondo siamo tutti unici. Ma perché non accettiamo che se siamo diversi allora inevitabilmente ci faremo notare?
Devi saper reggere gli sguardi. Imparare a non curartene. Reggere il peso della tua libertà. Sopportare le conseguenze della tua voglia di non conformarti. Generando così la trincea della tua unicità. Impara a difenderti da solo. Se hai scelto la tua condizione, non cercare mai una sponda nelle istituzioni. La maggioranza di esse è tua nemica. Puoi crogiolarti nell’esclusione. È idiota pretendere di essere difesi o integrati da coloro in cui non ti riconosci.
Bell'articolo, la parte sul cristianesimo è il motivo per cui preferisco lo gnosticismo cristiano