American Fiction e il Razzismo
Dal romanzo di Percival Everett al film di Prime Video, dal razzismo alla cancel culture.
Ho trascorso una delle scorse serate a guardare un film scelto tra il catalogo proposto da Amazon Prime Video, American Fiction.
Stufo che l’establishment tragga profitto da un intrattenimento “black” che si basa su tropi offensivi, un autore frustrato decide di scrivere uno stravagante libro “black”, che lo spingerà a confrontarsi con l’ipocrisia che egli stesso disprezza.
La didascalia di questo film da poco disponibile sulla piattaforma ha suscitato il mio interesse, sollecitato anche dall’apprezzamento generale dell’opera da parte del pubblico (punteggio IMDb pari a 7,6). La regia è quella di Cord Jefferson (The Good Place; Watchmen; Master of None).
Alla fine, nonostante una trama non geniale, anzi a tratti banale, il film mi è effettivamente piaciuto. Ancora non sapevo che il film fosse candidato a cinque premi Oscar. Soprattutto, ha stimolato in me qualche riflessione e qualche ulteriore ricerca che voglio condividere con voi.
Se non avete visto il film e queste riflessioni volete farle in modo autonomo, o semplicemente avete intenzione di godervelo in santa pace senza spoiler, potete tornare qui più avanti.
La ragione per cui ho apprezzato il film nel suo complesso è che, nella sua già citata trama semplice, riesce a rivelare una cosa che, secondo me, poche storie sono in grado di fare: mostrare, in modo appunto semplice, la complessità. Sia questa la complessità di un tema sociale, la complessità delle relazioni, la complessità di una singola persona o la complessità situazionali che ci spingono a prendere determinate decisioni, a volte coerenti e a volte no, durante la nostra vita.
Cancellazione
Il film è in realtà tratto da un romanzo intitolato Erasure (Cancellazione) di Percival Everett. Come il protagonista del suo romanzo e il protagonista dell’adattamento cinematografico (Thelonious Ellison, detto Monk), Everett è un autore afroamericano e professore di letteratura inglese. Ultimamente è diventato celebre sui media per aver paragonato la decadenza morale e politica degli Stati Uniti a quella dell’Impero Romano. In una presunta intervista a Repubblica, Everett dichiara che tale decadenza è ben mostrata dal rischio della rielezione di Trump come presidente degli Stati Uniti. La ragione per cui definisco presunta tale intervista risiede nel dubbio che Repubblica abbia effettivamente raggiunto l’autore per un’intervista, in quanto pare che quest’ultimo ne abbia proprio in questi giorni rifiutata una da parte del New York Times, ma forse semplicemente perché non voleva parlare del film in assenza del regista.
Ad ogni modo, Everett, classe 1956, ha fatto del tema del razzismo il centro della sua carriera, questo è indubbio e anche comprensibile. Meno condivisibile è quanto condiviso con Repubblica, quando l’autore pare dire che la democrazia è a rischio (fino a qui andiamo bene) e che la colpa di questo sia Trump e che se Biden non avrà più possibilità di vincere sarà fondamentalmente perché adesso la gente è stanca del fascismo e quindi della politica. In un’altra intervista di settembre 2023 trovata su El Paìs, avrebbe detto Biden is a decent man, but there’s not much he can do right now. A disturbarmi e darmi un senso di incoerenza in tutto ciò non sono strettamente le idee politiche (e lungi da me apprezzare Donald Trump che, come invece giustamente dice l’autore, fa leva sull’ignoranza) quanto il pensiero semplicistico di uno scrittore che fino a pochi minuti prima, mentre stavo guardando il film tratto dal suo libro, ho ritenuto di considerare come un uomo un po’ più profondo di così. Stupisce perché, proprio in American Fiction e sì affrontato il tema del razzismo ma, per una volta, in maniera non polarizzata e quindi intelligente. Comunque, queste congetture lasciano il tempo che trovano. Come scrivevo in questo articolo, una buona storia è una buona storia, e vive indipendentemente dal suo autore e dalle sue idee, in alcuni casi anche da quelle con cui lui avrebbe voluto impregnare l’opera. Quelle che condividerò, infatti, non sono le idee dell’autore, del regista o del protagonista dell’opera, ma le mie. In particolare, le idee che mi sono fatto guardando il film.
Il film presenta fin da subito dei toni che condannano l’ideologia woke e la cancel culture. Il coraggio della regia mi ha stupito, ma sono stato ancora più sorpreso quando ho visto che il romanzo, Erasure, è stato pubblicato nel 2001. Possibile che già allora, negli Stati Uniti, la woke ideology fosse così dirompente che persino un autore afroamericano abbia scritto un libro per dire basta? Possibile che l’acume di Percival Everett così raffinato da anticipare in tempi in questo modo? Diciamo di no.
Una precisazione doverosa: non ho letto il libro Erasure. Ma tutte queste domande e apparenti incoerenze mi hanno spinto a cercarne la trama su internet. Questa ricerca mi porta a dire, seppur tramite un giudizio oggettivamente incompleto, che ci sono quanto meno a livello percettivo alte probabilità che il film sia superiore al libro, ovvero che la regia di Cord Jefferson sia stata in grado di trasformare il romanzo di Everett in un’opera adattata nell’attualità, più moderna, anche più universale e, come detto prima, non polarizzata. Vedremo più avanti perché.
American Fiction
Come già accennato il protagonista, Monk, è un professore afroamericano di letteratura inglese e scrittore, non di grande successo ma solido nella sua produzione. Un uomo di mezz’età che si trascina nella noia della routine della sua vita e del suo lavoro. Durante una lezione in aula, il professore scrive sulla lavagna, citando l’autrice Flanney O’Connor, l’espressione The artificial nigger. Quella parola crea disagio nell’aula, in particolare da parte di una studentessa bianca e dai capelli verdi (scelta interessante che mi ha divertito non poco) che risulta totalmente incapace di rimanere in un’aula dove è costretta a leggere e rileggere quella parola sulla lavagna. Monk è tra l’essere sconcertato e smarrito mentre spiega alla studentessa che, a prescindere dalla moralità di un’espressione, questa non può essere cancellata e anzi è parte integrante della storia della letteratura degli stati del sud e quindi materia del corso. Inoltre, tenta di dire che se lui, afroamericano, riesce a convivere con quella parola scritta alle sue spalle, potrà certamente farlo anche lei. Perderà poi la pazienza: Da quando sono tutti così delicati?
Il suo essere apertamente contro l’establishment lo porta subito a essere allontanato dall’università con un periodo di congedo temporaneo.
Il ritrovato tempo libero gli permetterà di assistere a conferenze letterarie, come quella per il lancio del libro già besteller We's Lives in Da Ghetto di Sintara Golden, che asseconda in tutto e per tutto gli stereotipi letterari sulle persone di colore: vite difficili, vite discriminate, passate per lo più tra miseria e criminalità. In preda alla frustrazione, e non avendo molto altro da fare, decide di andare a far visita alla sua famiglia a Boston. Qui cominciamo a vedere i suoi limiti: nonostante l’inizio del film l’abbia presentato come una figura sicura di sé e delle sue idee, iniziamo a capire che Monk è un insicuro, a tratti anche ingenuo. A torto o ragione, definisce spazzatura, con il suo intellettualismo ironico, tutti i romanzi commerciali, specie oscenità come quelle partorite dalla Golden, ma non sembra neanche nutrire tutto questo rispetto per il suo stesso lavoro: Tutto quello che faccio è inventare persone e fargli fare conversazioni immaginarie tra di loro.
È una persona assente che non è fondamentalmente in grado di decidere e di prendersi cura del prossimo; è l’ultimo dei tre fratelli a scoprire che il padre ha sempre avuto relazioni extraconiugali e che la madre presenta i primi sintomi della demenza. Dipenderà dalla sorella per decidere come gestire la situazione della malattia del genitore e dalla stessa sorella scoprirà che, come lei, anche il terzo fratello è nel bel mezzo di un divorzio e quindi in difficoltà economiche.
La storia volge poi a un punto di svolta che comprende tre momenti: la morte della sorella a causa di un infarto, l’aggravarsi delle condizioni di salute della madre e l’impossibilità di far fronte alle spese mediche, e la redazione da parte di Monk di un nuovo romanzo. Si tratta di un romanzo scritto al solo scopo di provocare l’establishment, in quanto risulta essere ancora più banale, caricaturale e grottesco del tanto odiato We's Lives in Da Ghetto. Lo manda a una casa editrice, per fare uno scherzo e per sbattere la verità in faccia agli ipocriti. Il suo agente, però, lo avverte: I bianchi non vogliono la verità, vogliono solo sentirsi assolti. Infatti, il libro viene preso sul serio. Fiero o meno di quanto prodotto, quel libro risponde al bisogno del mercato e potrebbe essere un successo commerciale. Il protagonista non ne vuole sapere, ma l’insistenza dell’agente e un’offerta da parte della casa editrice per i diritti di 750.000 dollari, più che utili per pagare le cure della madre, gli fanno cambiare idea, anche se a malincuore.
Asseconda l’idea dell’agente che, come mossa di marketing e come espediente per tenere riservata l’identità dell’autore che si vergogna del suo stesso libro, inventa che Monk sia un carcerato in fuga. Da quel momento è tutto un susseguirsi di cliché razzisti (woke) che vedono Monk impegnato nel fingere, durante le interviste, di parlare in modo volgare in stile gangster, partecipare come giudice a premi letterari per sopperire alla mancanza di diversity nelle giurie e anche a lavorare all’adattamento cinematografico del libro.
I dettagli e il finale dell’opera li lascio a voi.
Paradigmi diversi
Già nel 2001 Everett vedeva negli stereotipi, ora tutti racchiusi anche nell’ideologia del politicamente corretto, uno dei sintomi del razzismo. Anche se l’autore è convinto che, lo cito, tutto abbia a che fare con il razzismo, i suoi personaggi risultano più inclini ad accettare una visione del mondo più ampia. O forse si tratta dei personaggi del regista Jefferson? Il personaggio della scrittrice commerciale Golden, è per esempio più profonda e intelligente di quanto non voglia apparire. Lei stessa mentre si confida con Monk dice che il suo lavoro è frutto di numerose ricerche e interviste a persone che vivono nella miseria, che non è un male in sé dare ai lettori ciò che vogliono, e che non è un suo problema se i lettori bianchi trasformano ciò che lei scrive in degli stereotipi.
Tutta la storia ha a che fare con l’ipocrita e grottesco moralismo che di discosta sempre di più dalla realtà e, ovviamente, con i soldi che arrivano da un pubblico che vuole ripulirsi la coscienza attraverso storie di violenza, corruzione e prevaricazione.
E invece, grazie alla storyline della vita familiare che poi converge in quella del romanzo che Monk intitola Fuck, vediamo una famiglia di persone di colore che conduce una vita borghese, fatta dalle stesse tradizioni, stesse gioie e stessi dolori di qualsiasi altra famiglia americana e non.
Monk è un personaggio caratterizzato da intellettualismo, saccenza e incapacità di decidere. Nulla di ciò che vive deriva effettivamente da una sua decisione, neanche quella di pubblicare il libro Fuck. Si fa trascinare dagli eventi cosa che, anche se lo porta al successo economico, lo devasta in quanto individuo.
Questa è una mia personale interpretazione, perché il finale è, appunto, interpretabile in modi diversi. Più palese è il rapporto con la complessità della vita. Questo film fa provare la corruttibilità insita in ognuno di noi e ci fa rendere conto che spesso una persona non è definitivamente giudicabile. Una persona come Monk che non solo per debolezza ma anche per prendersi cura di propria madre, accetta di diventare ciò contro cui ha sempre lottato.
In un certo senso, il protagonista si è letteralmente sacrificato per sua madre. Chi siamo noi per dire che è semplicemente uno scrittore corrotto dalle trovate commerciali dell’industria dell’intrattenimento? O meglio, possiamo dirlo e non avremmo torto, ma una cosa non esclude l’altra.
Nota: Esiste una (mia) chiave di lettura della storia che può essere valida o meno valida, ma che in ogni caso penso non possa passare in secondo piano: Monk, alla fine della fiera, fa la sua scelta. Sta all’individualità di ciascuno stabilire se abbia fatto bene, male o nessuna delle due. Il punto è che, in ogni caso e a conti fatti, l’establishment vince. Una morale che fa subire un senso di impotenza a chi legge (o chi guarda) che mi ha ricordato 1984 di George Orwell. Finali come questo, in storie come queste, mi hanno sempre turbato poiché non lasciano speranza al fruitore [che è la ragione per cui ho inserito in questo punto questo paragrafo che parla di sconfitta, di assenza di speranza: non è con un messaggio del genere che intendo terminare un articolo].
Tornando al sacrificio di Monk e all’impossibilità di giudicare il protagonista per le sue scelte, è chiaro che leggendo la trama del romanzo originale non si possano fare esattamente gli stessi ragionamenti. Nel romanzo di Everett, infatti, quella dualità che proprio all’establishment piace (cosa che infatti Percival Everett sembra non aver capito appieno a giudicare dalle sue interviste) permea la storia.
Nel romanzo ciò che Monk vive altro non è che il razzismo per come lui lo ha vissuto, percepito unicamente come conseguenza dell’esistenza della fazione dei cattivi, e con la speranza che i buoni possano cambiare il mondo. Il protagonista non può fare altro che scegliere da che parte stare. Nel romanzo Lisa, la sorella del protagonista lavora in una clinica specializzata nella pratica dell’aborto e viene uccisa da un attivista antiabortista. Nel film, nonostante le battute sui bianchi, non si percepisce la presenza di fazioni. Lisa è impiegata in una clinica, ma non viene specificata la natura del suo lavoro e la sua morte è causata da un infarto. Tutto è più neutro. Bianco e nero diventano la stessa cosa oppure convergono uno dentro l’altro, così come il razzismo conservatore e il politicamente corretto.