Intrattenimento Woke: la crisi della narrativa
Che cos’è l’ideologia woke e come sta cambiando l’industria dell’intrattenimento e della narrativa.
Le case di produzione e piattaforme di streaming stanno accumulando un fallimento dietro l’altro se si guardano i dati del botteghino. Diventa infatti sempre più chiaro che la svolta woke di queste società rappresenti il loro frantumarsi violento contro il muro di cemento della realtà, la stessa che queste pretendono di rappresentare fedelmente. Tra queste troviamo, in prima linea, la Disney.
Ma facciamo subito un passo indietro. Che cosa intendo per svolta woke?
Lontano dagli occhi
Se dovessi rispondere in pochissime parole, direi che è l’affermarsi della moderna ideologia della censura e autocensura preventiva e che, come scrive il sociologo Marco Del Giudice, fa sì che i dibattiti cruciali restino impantanati in questioni semantiche senza uscita, offrendo pretesti di ogni tipo per cancellare retroattivamente gli avversari.
È il politicamente corretto che inietta nella cultura l’idea che le parole siano letteralmente forme di violenza e oppressione e che quindi le idee pericolose giustifichino il ricorso alla censura e alla violenza. Chi non si allinea paga il prezzo con l’ostracismo venendo bollato con termini quali razzista, transfobico, sessista ecc.
Tra le varie cose, tutto ciò ha a che fare con la sviluppata regressione che la società sta avendo nel percepire sé stessa. È infatti evidente che la wokeness, rappresenta la nostra nuova incapacità di affrontare quelle situazioni che di volta in volta emergono dentro il nostro mondo. Un revisionismo di nuova generazione che mostra come non siamo più in grado di fare i conti con ciò che siamo e con ciò che, nonostante le nostre radici, ci capita nella vita. La cultura woke è quell’ideologia che, nel rifiutare la naturale ambivalenza della vita, ci dice che anziché indagare la società, o ancor di più noi stessi, la cosa migliore che possiamo fare per sentirci meglio è quella di mettere qualche asterisco qua o là. Non è la filosofia già becera del “basta cambiare canale”, magari lo fosse. È piuttosto la filosofia del “basta cambiare l’intero palinsesto, anche quelli del passato”.
In altre parole, si tratta di un diniego di sé, del rifiuto della propria storia e, in ultima analisi, di una sorta di patologia schizofrenica più comunemente definita come Cancel Culture.
Punteggi woke
Torniamo alle scelte delle case di produzione, nonché delle più celebri piattaforme di streaming. Si tratta di aziende private ed è giusto che come tali facciano ciò che vogliono: che scelgano le proprie strategie di vendita, tecniche di marketing e ovviamente che comunichino i propri valori. Ovviamente il discorso è più complesso di così, perché dovremmo anche entrare nel magico argomento dello stakeholder capitalism, il modello economico verso cui tendiamo sempre di più a livello globale, che a sua volta prevede la progressiva tendenza verso l’unificazione delle sfere dello stato, delle aziende private e del senso della collettività.
È bene ricordare che la strategia arcobaleno di queste aziende di intrattenimento, e non solo loro ovviamente, è da ricondurre al recente Corporate Equality Index (CEI), da alcuni definito appunto come il Woke Credit Score. Il funzionamento di questo punteggio è piuttosto semplice.
Intanto, chi lo attribuisce? L’organizzazione Human Rights Campaing (HRC), finanziata, tra i tanti, da George Soros. È l’ente che ha il compito di fare audit annuali verso le aziende e assegnare, alzare o abbassare il loro CEI score. Quello che accade se il punteggio woke di un’azienda si abbassa troppo è che gli investitori ideologicamente allineati (BlackRock, Vanguard e la State Street Bank) faranno pressioni per mettere in difficoltà suddetta azienda. Nei casi più semplici, basti pensare al fatto che gli stakeholder in una azienda hanno il diritto di voto sui suoi amministratori.
È la stessa cosa che accade con il Environmental, Social and Governance (ESG) Score il cui alfiere principale è sempre stato Larry Fink (BlackRock).
Intrattenimento woke
Svolta woke nel campo dell’intrattenimento. Se ci avete fatto caso la Disney è la società che con la sua piattaforma di streaming, Disney+, più dei suoi concorrenti (tra i più famosi vediamo ovviamente Amazon Prime Video e Netflix) ha riempito le sue storie di elementi che fanno riferimento al movimento LGBT, al femminismo, antirazzismo, all’inclusività in generale e all’ambientalismo. Questo non include unicamente prodotti nelle cui storie romance, ad esempio, spopolano coppie omosessuali, o in cui attori che rappresentano delle minoranze etniche vengono inseriti (spesso forzatamente) in determinati ruoli, ma anche in veri e propri disclaimer messi all’inizio di quei prodotti che sono, invece, un po’ meno moderni.
Questa, ad esempio, è la prima cosa che vedrete se sceglierete di guardare gli Aristogatti su Disney+.
Potreste vedere lo stesso messaggio se scegliete di vedere Peter Pan, Dumbo, o Aladdin.
Lo stesso approccio è poi quello che è previsto nei vari remake dei cartoni animati storici che, rispetto agli originali, sono più inclusivi e più fedeli nella rappresentazione della realtà dei nostri giorni. Noti esempi sono i remake della Sirenetta, Biancaneve e Mulan, ma la questione della rappresentazione fedele del mondo con le sue etnie è stata spesso citata dai produttori di Prime soprattutto con l’uscita di Lord of the Rings: Rings of Power. Ci torniamo dopo.
C’è poi tutto il tema femminista del cosiddetto Girl Power, ben espresso da innumerevoli film e saghe, come quelle della Marvel.
Mi spiace l’idea di deludere la sensibilità di qualcuno ma società come Disney non esistono in questo mondo per renderlo un posto migliore. Anche se potrebbero farlo. Come dimostrato prima, sbagliano però anche coloro che dicono che tutto ciò sia colpa del capitalismo e del cinismo commerciale.
Anche perché se guardiamo ai risultati commerciali. Beh…
I continui flop dimostrano che il pubblico sta poco per volta voltando le spalle a questa filosofia. È evidente, perché la Disney tendeva a sfornare film che ogni anno incassavano miliardi di dollari. Questo, negli ultimi anni, non sta più accadendo. Il mercato, quello reale, non quelli dei woke score, presto o tardi rivela la verità.
The Marvels, ad esempio, ultima opera della Disney, ha incassato circa 200 milioni di dollari. Solo la produzione è costata 220 milioni di dollari. Un vero flop. Abbiamo poi Wish, il nuovo film di animazione costato più di 200 milioni di dollari di produzione e incassato 126 milioni di dollari. La Sirenetta e Mulan 2.0 non sono andati tanto meglio.
I classici Disney, come tutte le grandi storie, sono sempre stati tali perché l’opera in sé è sempre stata più importante delle intenzioni dei loro creatori. Sono le opere migliori, quelle che altro non sono se non una vera e propria avventura all’insegna della scoperta. L’autore stesso riesce a dare valore alla sua opera se, mentre la produce, riesce egli stesso a scoprire qualcosa di nuovo. La recente ideologia woke è l’antitesi della scoperta e dell’avventura perché non rappresenta niente se non il pretendere di insegnare agli altri cosa è giusto. Cosa è giusto raccontare e soprattutto cosa è giusto recepire dal racconto. Questo distingue il classico dalla mera opera di intrattenimento, per non dire opera di propaganda. Solo i primi, infatti, vivono di vita autonoma, a prescindere dalle intenzioni o dalle turbe mentali dell’artista di turno. Se, al contrario, un’opera vive e muore sotto il dominio delle intenzioni dell’autore ecco che l’opera diventa qualcosa che risponde a dei bisogni transitori. Lo scopo principale di un’opera, come può essere quello di raccontare una storia, non esiste più. Le grandi opere non sono quelle che donano un qualche tipo di comfort a una categoria di persone. L’opera creativa vive infatti di energie che valicano le sensibilità di un’epoca perché mette gli individui davanti a elementi e dinamiche universali. Le storie non sono prodotte da sceneggiatori affinché questi possano insegnare arrogantemente la bontà o meno di determinati valori o tanto meno per far digerire forzatamente a qualcun altro la loro ideologia politica. Piuttosto, queste esistono per darci qualcosa in cui riconoscerci universalmente e in queste opere non esiste, e non deve esistere, la voce esterna di qualcuno che ci debba insegnare a pensare in modo corretto.
E questo è esattamente ciò che il fruitore dell’opera cerca, consciamente o meno. Un profondo sé all’interno della narrazione ricavabile attraverso la trasparenza della storia.
Mi sono trovato spesso a parlare di Tolkien ultimamente, e gli ho anche dedicato uno dei miei racconti. Si tratta di un altro esempio in cui certamente l’autore ha voluto lanciare dei messaggi, ma questo non vuol dire fare la lezione o la morale a qualcuno. E stiamo parlando di un’opera dai forti connotati cattolici! Tolkien è andato alla ricerca di sé stesso e ha prodotto un’opera per tutti, un’opera immortale. E questa è la ragione per cui la nuova serie tv di Prime Video basata sull’immaginazione di Tolkien, Rings of Power, sta, invece, fallendo miseramente. Perché è un prodotto che nasce proprio con l’idea di fare una lezione. Un intruglio pedagogico. Di cattivo gusto, tra l’altro.
Femminismo e tanto altro
I prodotti più colpiti dalla pandemia woke sono i live action, ovvero le riproposizioni dei film di animazione con attori reali. È evidente che non solo questi siano oggettivamente peggiori rispetto al prodotto originale, ma anche di come il tema dell’inclusività sia stata messa davanti alla creatività e alla sceneggiatura. A tal proposito, tocca citare ancora Tolkien, come hanno fatto spesso in queste occasioni i suoi fan di lunga data:
Il male non può mai creare nulla di nuovo, solo distorcere e distruggere ciò che è stato inventato o fatto dalle forze del bene.
Certo, ci sono anche casi in cui queste aziende di produzione creano dal nulla qualcosa di nuovo. Sono i casi di film di animazione inquietanti come Strange World, dove il fatto che l’elemento inclusivo debba sostituire la storia è particolarmente evidente. Questo rende tale film assolutamente inguardabile.
Ma il Nuovo Hollywood non si ferma e tanto meno Disney con i suoi live actions, appunto. Dopo la Sirenetta di colore, la fatina Trilli di colore, la fata turchina di Pinocchio di colore e la fata madrina di Cenerentola che si è trasformata in un afroamericano travestito, una delle novità più recenti è il live action di Biancaneve e i Sette Nani con la protagonista che non ha la pelle bianca come la neve. Ma questo è il meno, perché la cosa più disgraziatamente divertente è che in questo live action non ci saranno i nani. Questo, secondo Disney, per non discriminare chi è affetto da nanismo. Da quanto ho capito, non ci sarà neanche un principe azzurro. Figuriamoci se un uomo, per quanto sia un principe, possa permettersi di dare un bacio alla Biancaneve addormentata senza il suo esplicito consenso! La nuova Biancaneve è infatti una donna emancipata che si salverà da sola senza l’intervento di un maschio bianco, eterosessuale e ricco.
Il messaggio ideologico necessita infatti di apparire chiaro: le donne sono sminuite a causa del costrutto sociale del genere. Ovviamente la realtà è diversa visto che il genere non è un costrutto sociale. Ad ogni modo le donne devono apparire come creature perfette che non hanno bisogno di nessuno. Basta che credano in loro stesse e avranno tutto ciò che vogliono. Valori come sacrificio e dedizione non esistono più. Sono gli uomini che, primitivi quali sono, devono impegnarsi per poter sperare di concludere qualcosa nella loro vita. Un caso clamoroso è quello di Barbie, film che si basa unicamente sull’universale disfunzionalità dell’uomo in quanto tale.
Cosa abbiamo, quindi? Personaggi femminili insopportabili. Tornando a Rings of Power, la protagonista elfa Galadriel è assolutamente difficile da digerire. Come Rey, la strana Jedi-dal-nulla della nuova saga di Star Wars, brand guarda caso passato nelle mani della Disney. Anche l’isterismo di She Hulk non è da meno. La peggiore è però ovviamente Captain Marvel, una donna arrogante e priva di emozioni il cui scopo è vendicarsi del suo maestro che l’ha tradita. Questo, tra l’altro, è letteralmente il riassunto della storia del film, perché non succede davvero altro. A volte penso che le donne vogliano essere rese appositamente insopportabili per alimentare ogni giorno di più quella dinamica che i vertici stessi hanno creato: la lotta di genere. E questo non ha a che fare con la rappresentazione femminile forte: non è mai stata una mancanza della narrativa, sia quella scritta che cinematografica. Pensiamo al personaggio di Mulan, che approfondisco dopo, Lara Croft, Sara Connor. Tutti personaggi femminili forti molto apprezzati sia da donne che da uomini.
Uomini che, oggi, non devono essere target di intrattenimento sano e tanto meno di empowerment, come accade alle donne. Piuttosto, l’obiettivo riservato agli uomini sembra essere quello di sviluppare il loro disagio all’interno di questa società. La regista del nuovo franchise di Star Wars ha pochi dubbi a riguardo.
L’evoluzione del personaggio
La sceneggiatura è una questione seria. Uno degli elementi più importanti di una storia, forse il più importante di tutti, è l’evoluzione del personaggio. Ne avevo parlato brevemente in questo articolo, mentre spiegavo cosa mi stava portando a scrivere racconti da pubblicare su questa newsletter. In molte di queste nuove e guarda caso raccapriccianti storie, tale evoluzione non esiste, proprio perché se esistesse lascerebbe in secondo piano i messaggi di propaganda politica che non vuole neanche più essere subdola.
Nel romanzo originale di Pinocchio, ad esempio, il protagonista è un ragazzino di legno svogliato che odia la scuola. Nel corso della storia, cambierà. Nel nuovo live action, invece, Pinocchio è un ragazzino saggio che non ha bisogno di maturare. In compenso, è discriminato, perché è di legno. Di nuovo, gli autori della storia ci vengono davanti per farci la morale e insegnarci cosa giudicare giusto o sbagliato. Una vera tristezza, soprattutto considerando il profondissimo valore culturale e iniziatico che ha l’originale romanzo di Collodi. Un argomento che consiglio di approfondire.
I personaggi sono sempre perfetti, senza difetti. C’è un elemento fondamentale in sceneggiatura che si chiama difetto fatale, senza il quale la storia non ha praticamente ragione di esistere. Senza il difetto fatale non può esistere un vero intreccio e senza un intreccio la storia non è altro che una tela sporca di colori. I geni della Disney, accanto ai loro messaggi (sub)morali, stanno di fatto insegnando ai bambini che loro sono perfetti, il mondo è alle loro dipendenze e che l’unica cosa che li separa dal successo personale o spirituale è il patriarcato, o il razzismo o quello che volete. Cresceranno totalmente deresponsabilizzati e senza la concezione di doversi adattare a qualche situazione, ma solo con quella di doversi lamentare fino a che quella situazione non cambia per loro. Vi torna con tutte le altre faccende distopiche con cui abbiamo a che fare? Capite perché in quell’articolo che ho citato prima parlavo dell’importanza delle storie?
Passiamo a un altro esempio: Mulan. Secondo voi è possibile rendere biecamente femminista un cartone animato che già originariamente ha messaggi riconducibili al femminismo? Evidentemente la risposta è sì. Nel cartone animato originale avevamo una ragazza che non si vedeva nei panni della classica donna in casa e madre e che piuttosto voleva vivere una vita da soldato per difendere la sua patria (alla fine è legittimo, no?). Comincia dunque la sua peripezia fatta di incertezze e umiliazioni in cui lei non riesce a essere abile come gli altri soldati dell’esercito. Dovrà soffrire e sacrificarsi per realizzare il suo sogno. Stiamo di nuovo parlando dell’evoluzione del personaggio. Nel nuovo live action abbiamo invece una Mulan che fin da bambina è più brava a combattere di tutti i soldati. Un po’ come Jane Foster che non appena impugna il martello di Thor, diventa più abile a combattere del dio del tuono o l’assenza di battaglie interiori da parte di Captain Marvel.
Non solo narrativa
I film non sono l’unica forma di intrattenimento. Possiamo prendere un esempio alternativo di intrattenimento come lo sport. Come fa la woke culture a inserirsi anche negli sport? Beh, che mi dite di quel periodo in cui tutti i giocatori di calcio dovevano inginocchiarsi (scusate, devo sottolinearlo: inginocchiarsi) per mostrare solidarietà a George Floyd, quel ragazzo il cui omicidio ha fatto nascere il movimento Black Lives Matter.
Per non parlare degli innumerevoli casi in cui ex-uomini si sono trovati a essere vincitori di gare o competizioni di categoria femminile, compresi i concorsi di bellezza.
Il risultato
Con l’assist del cambio di abitudini post pandemia, la gente si accorge di tutte questa oscenità di intrattenimento e smette di andare al cinema. È tutto il mercato dell’intrattenimento che sta collassando. Ovviamente, chi lavora nel settore tende a dare la colpa ai fan. Qual è la loro colpa? Quella di essere sessisti, bigotti, razzisti, transfobici. La ragione quindi non è assolutamente che i film fanno schifo. Ovviamente potremmo fare un discorso simile sui libri, ma in quel caso penso che la questione sia ancora più complessa e che si riconduca maggiormente all’argomento della mancanza di passioni.
Ad ogni modo, le donne hanno ora totalmente perso la rappresentazione femminile di cui avevano bisogno. Solo per questo? Sì, perché il cinema è un mezzo mediatico molto potente. Penso che la figura femminile ne gioverebbe molto di più se le donne venissero rappresentate diversamente. Come esseri umani, mi verrebbe da dire. Uomini e donne sono diversi tra loro ma alcune esigenze, credo, sono comuni a uomini e donne, come quella di riconoscere e affrontare i propri difetti, elemento sempre presente nelle vere storie.
Ma questo sarebbe troppo nobile e naturale per una linea politica che non vuole abolire il razzismo, forse consapevole dell’irraggiungibilità di tale desiderio. Piuttosto, lo vuole invertire. A tal proposito vorrei citare l’ennesimo film senza senso da poche settimane uscito su Netflix, Il Mondo Dietro di Te, con Julia Roberts. A parte tutti i riferimenti ambientalisti e la simbologia questionabile, e a parte ovviamente la mancanza di una storia, nel film ci sono più riferimenti e battute razziste che, normalmente, dovrebbero far saltare dalla sedia i più. Ma visto che sto parlando di razzismo nei confronti dei bianchi, allora questo non accade. Mi riferisco a quando un personaggio, Ruth, parlando con suo padre dice:
Quando il mondo va a pezzi, non dovresti fidarti facilmente di nessuno, specialmente dei bianchi.
Un film strano, prodotto dalla famiglia Obama, che comunque consiglierei di vedere.