Utopie digitali e “webfare”
Le tecnologie digitali permettono alla società di progredire. Ma a condizione che l’innovazione e gli individui restino liberi. C’è chi non è d’accordo.
Sembra che oggi le derive totalitarie non spaventino più come in passato. I regimi sembrano meno terrificanti per effetto di una minore carica aggressiva. Resta comunque, ed è destinata ad aumentare, la carica di violenza morale contro le persone che, nel frattempo, sono diventate carenti di senso di responsabilità e bisognose di protezione verso un nemico perenne che si ripropone sempre più sotto diverse ed astratte vesti. E più il bisogno di protezione viene creato, più permane l’illusione dell’utopia, soprattutto negli ideali collettivistici ed egualitari, anche questi sempre più rafforzati, anche derivanti dall’eredità del cristianesimo.
Questa illusione vive nella crisi della già finta democrazia liberale provocata dal “liberalismo economico”, ovvero il capitalismo pericoloso che rende necessaria la protezione da parte dello Stato.
Nella nostra epoca la proposta dominante è quella di un socialismo liberale, come rappresentazione di una nuova democrazia liberale, dove il socialismo dovrebbe ridurre l’intervento dello Stato nell’economia e il liberalismo aprire all’intervento politico. Comunque, l’ideologia di fondo è la stessa: collettivismo, altruismo e statalismo. E visto che i controlli portano sempre ad ulteriori controlli, ad un certo punto non può non manifestarsi la scelta tra l’abolizione degli stessi o lo sprofondare nella dittatura. I compromessi sui principi di base di una società, infatti, non dovrebbero esistere in quanto sono questi che ne determinano le qualità finali.
Contro il capitalismo
Nei momenti più critici della storia, per altro spesso resi tali dai meccanismi accentratori, tende a tornare l’esigenza di incriminare il mercato ed il capitalismo, sebbene questo non sia mai propriamente esistito. Vengono spesso sottolineate le ingiustizie da rimuovere e di frequente l’esperienza digitale risulta essere un livellatore eccellente, almeno sul piano teorico. Un approccio intellettuale già visto nei primi anni ’90 dopo la dissoluzione dell’URSS. Un fenomeno poi crescente con l’avanzare della globalizzazione che a sua volta concepisce un decadimento globale abbellito da tante certezze e sicurezze e amplificata dalla massa virtualizzata, oggi, dai social media.
Fenomeni, questi, fioriti anche dopo la crisi del 2008 causata dagli evidenti fallimenti del capitalismo. E qui allora cominciano a spuntare tesi che fanno propria quell’illusione e che pretendono modernità fondendo l’illusione stessa con la tecnologia digitale. Vengono allora fuori proposte come quella del filosofo Maurizio Ferraris che sviluppa una analisi della società in ottica marxiana, dove la rivoluzione industriale viene superata da quella che lui definisce come l’attuale rivoluzione documediale.
La documanità
Secondo Ferraris, la rivoluzione documediale si caratterizza per la presenza del capitale che produce dati utilizzati dall’industria di internet. Il filosofo propone, come Marx, una società dicotomica dove gli sfruttati sono cresciuti al punto di proletarizzare l’intera società essendo i nuovi proletari tutti gli utenti del web che non vengono pagati per i dati che forniscono automaticamente ogni volta che si connettono alla rete. Secondo questa visione, quindi, il capitalismo ha prodotto una nuova forma di comunismo, realizzando le previsioni di Marx.
Noi siamo la società più vicina al comunismo che la storia abbia mai conosciuto. Il telefonino con cui creiamo dati, cioè ricchezza, ci appartiene (ma ce lo danno praticamente gratis, se ci impegniamo a usarlo) così come la casa che diamo in affitto con Airbnb o l'auto di cui ci serviamo per lavorare con Uber. Finisce così l'alienazione, perché vien meno la differenza tra tempo del lavoro e tempo della vita (siamo perennemente mobilitati sul web).
Una società senza classi, sostituite dalle fasce di reddito per omologazione culturale e valoriale. Una società globalizzata, secondo Ferraris, senza Stato, per il trasferimento progressivo delle prerogative statali ad agenzia extra-statali. In breve, la rivoluzione documediale ha dato inizio all’avvento della nuova era della documanità in cui finalmente l’uomo, liberato dalla fatica del lavoro, potrà dedicarsi a quell’otium creativo che nell’antichità l’automazione perfetta dei molti (gli schiavi) permetteva ai pochissimi.1
L'epistemologia ci aiuta a capire che cosa non va nella rivoluzione, e in particolare l'enorme asimmetria (che chiamo "plusvalore documediale") che, in quella che a torto è definita una economia della conoscenza, contrappone le informazioni ottenute da chi si mobilita e quelle che cede gratuitamente alle piattaforme.
Il Plusvalore Documediale
Quindi una volta individuati i tratti della società comunista, come astenersi dal correggerne le ingiustizie di fondo, ossia la mancata retribuzione del plusvalore dei big data rilevati ed utilizzati dai gestori delle piattaforme digitali? Magari introducendo un salario di mobilitazione finanziato, non sorprendentemente, dalla tassazione degli utili dell’industria delle tecnologie e corrisposto con un dividendo. Ferraris, poi, ammette che quantificare e riconoscere la natura del plusvalore costituisce un compito filosofico non meno necessario di quello svolto da Marx al suo tempo.
Addirittura, il capitalismo documediale, attraverso la sussunzione del lavoro sotto la categoria della mobilitazione continua che annulla la differenza tra tempo del lavoro e tempo della vita provoca la scomparsa dell’aspetto più vistoso del capitalismo secondo Marx, ovvero l’alienazione del proprio tempo e pur persistendo lo sfruttamento dei lavoratori-fruitori digitali. Ed è qui che si rende necessaria una soluzione.
Occorre disegnare un nuovo welfare, perché le persone sono giustamente preoccupate per il loro lavoro ed è vero che i lavori ordinari scompariranno.
Questo, però, non fa che delineare una società schizofrenica perché da un lato il superamento dell’alienazione del proprio tempo consente di realizzare la vita pragmatica del comunismo realizzato, ma dall’altro l’allargamento dello sfruttamento acuisce proprio l’ingiustizia annidata nei rapporti di produzione che era il bersaglio primario del comunismo marxiano.
Anche il filosofo Slavoj Žižek fa notare l’iniquità economica dello scambio tra la navigazione in rete e l’appropriazione dei dati personali ed avverte sulla minaccia alla libertà dei cittadini per effetto del web, considerato uno dei beni comuni più importanti. Allora, se prima era il capitalismo industriale a sfruttare il lavoro operaio ora è il capitalismo della sorveglianza ad appropriarsi indebitamente del surplus valoriale dei dati personali dei consumatori digitali per costruire modelli comportamentali a fini commerciali, come sostiene anche Shoshana Zuboff che ha ricostruito l’ascesa del fenomeno a partire dal 2002 al traino di Google, in The Age of Surveillance Capitalism.
Welfare, la soluzione a tutti i mali
Come spesso capita agli intellettuali che si nutrono di questo tipo di ideologie, Ferraris offre una visione della realtà attuale a tratti anche corretta per poi perdersi nei meandri di una narrativa che dalla realtà si dissocia totalmente. Alcune tecnologie, soprattutto quelle partorite dalle Big Tech, rappresentano effettivamente un danno alla libertà umana. Ma troppo poco peso è stato dato a questo aspetto dalle analisi del filosofo.
In diversi passaggi ed interviste denuncia la continua opinione pubblica lamentosa, quando invece bisognerebbe rimanere concentrati sulle soluzioni. Ebbene, è tutto qui? È il welfare (da lui rinominato in questo caso webfare) la soluzione a tutti i mali? Dopo aver chiamato in causa l’epistemologia, la metafisica, il determinismo marxiano e la conquista di una società senza Stato (che solo Ferraris è in grado di assaporare, temo), ricadiamo appunto nell’interventismo statale e nel welfare come premio di consolazione per il vivere in una società oggettivamente ingiusta. Quasi come se un reddito aggiuntivo potesse trasformare l’esito della morale e della natura del libero mercato. Potrebbe trasformarne la percezione in qualche caso, forse. Si chiama corruzione. Ed è una delle strade da tempo intraprese, ad esempio, dalla Cina. Ma sappiamo che a molti intellettuali il modello cinese piace e Ferraris non sembra fare eccezione.
Pechino ha conosciuto grazie al web uno sviluppo economico impressionante e ha potuto ridistribuire in termini di welfare l’enorme plusvalore realizzato dalle piattaforme. Tutto questo però ha un costo, cioè la forte riduzione delle libertà individuali, in piena coerenza con il comunismo.
In Occidente, invece, per il filosofo saremmo difficilmente disposti ad accettare una simile riduzione della libertà (purtroppo non so se essere d’accordo) ma proprio per questo paghiamo un prezzo enorme: la mancanza di welfare e la disoccupazione crescente, conseguenza dell’automazione sempre più perfetta, che rende sempre meno necessario l’homo faber.
Lo scopo e il senso di produzione e distribuzione di contenuto, infatti, consistono proprio nel soddisfare desideri e consumi, e se diventiamo capaci di analizzare il plusvalore generato dal web, ci mettiamo anche nelle condizioni di attuare il welfare del XXI secolo. L’essere umano dovrebbe quindi trasformare in fonte di reddito proprio ciò che lo contraddistingue dalle macchine, cioè manifestare desideri ed esercitare consumi: il ‘ricavato’ da questa ricchezza sarebbe poi da redistribuire sotto forma di welfare.
Il filosofo si augura di assistere così a una futura crescita civile e morale, in cui le macchine svolgono le mansioni faticose e ripetitive, e agli umani resta l’inestimabile lavoro di vivere, che dà senso a tutto il sistema, e che nessuna macchina potrà mai surrogare.
L’ostacolo può dipendere dagli esseri umani, usi a rimproverare le piattaforme ma pronti a comportarsi come loro appena possono. L’egoismo di chi dirà che i mille euro all’anno li vuole per sé e non per chi non ha soldi e ha aperto un conto in dati. O l’egoismo di chi già oggi si rallegra per la nascita di piattaforme non centralizzate, basate sulla tecnologia della blockchain, in cui ognuno rimane proprietario dei dati che produce. Facendo sfumare l’enorme possibilità di disporre di un capitale completamente nuovo, nato dall’umanità e destinato all’umanità e non ai singoli.
E la libertà?
Queste proposte, ovviamente, non sono soluzioni ma espedienti che da una parte hanno l’intento di corrompere l’individuo affinché possa accettare la perdita della propria libertà e del controllo sul suo corpo e sui suoi pensieri e dall’altra creano nuovi precedenti per il rafforzamento di organismi statali o extra statali (ma inevitabilmente collegati allo Stato) oppure rendendo quelli privati come parte di quelli pubblici e la legittimazione all’esproprio del valore creato per il bene collettivo.
Sebbene effettivamente le alternative siano scarse, l’utente potrà sempre cercare di percorrere altre vie e scegliere individualmente e liberamente di utilizzare determinati servizi online o meno. Inoltre, se un utente è in disaccordo con una politica aziendale, sarà libero di non farne parte. Sebbene ciò non sia sempre completamente attendibile, è certamente vero che lo stesso grado di libertà non è garantito per chi è messo nella condizione di aver bisogno di servizi pubblici e statali, contesto in cui la capacità di opposizione non diventa più democratica. Nel momento in cui, per esempio, la collettività si dovesse aspettare che ogni individuo ceda i propri dati per finanziare un webfare comune, allora si porrebbe un grosso problema e non varrebbe più la prospettiva del fatto che se proprio dobbiamo navigare in rete, “tanto vale che ci facciamo pagare”, perché presto o tardi navigare in rete diventerebbe un dovere il quale, inevitabilmente, verrebbe coordinato dallo Stato.
Il punto focale è che l’attenzione dell’analisi viene posta sui premi piuttosto che sui metodi. Paradossalmente, sul materiale piuttosto che sulla morale. Risulta curioso, infatti, che a chi si preoccupa così tanto per il bene dell’umanità sfugga la totale mancanza di etica nel premiare, e quindi incentivare, un utente a rinunciare alla proprietà dei suoi stessi dati personali. Ovvero alla rinuncia della sua individualità, libertà e proprietà privata. Forse, appunto, una mente etica si sarebbe concentrata sul fatto che l’essere umano viene utilizzato come capitale investito o come un semilavorato utile alla creazione di dati da tradurre in profitto. E già ora sembrerebbe che neanche lo Stato, chiamato in causa come protettore del cittadino, se ne faccia un cruccio.
La libertà individuale non può essere mai messa in secondo piano, figurarsi se fatto in nome del welfare. Perché la dittatura vive dove non c’è libertà. E non c’è libertà dove vigono il collettivismo e la forza per imporre l’altruismo di cui esso si nutre. Perché ciò comporta sostanzialmente, nella prassi di governo, l’espropriazione forzata dei diritti individuali.
Lungi da me difendere l’operato ed i modelli di business delle Big Tech. In effetti, è bene evidenziare che queste realtà, a differenza di moltissimi business, fondano i loro guadagni sulla stessa idea collettivistica che Ferraris prima condanna e poi dal punto di vista ideologico ripropone in una via contorta e paradossale come soluzione. A dirla tutta, tali modelli di business sono in gran parte associati alla vicinanza esistente tra queste imprese e le diverse agenzie governative. Si pensi, ad esempio, a come aziende come Google, Facebook, Apple e Microsoft abbiano fatto tutte parte di PRISM, il programma di sorveglianza di massa della NSA (National Security Agency), come dimostrato dai documenti pubblicati da Edward Snowden nel 2013.
Non a caso Zuboff, parlando del Capitalismo della Sorveglianza, che capitalismo non è, visto che quest’ultimo presuppone la libertà individuale e di autodeterminazione e la centricità della proprietà privata nella società, (questo aspetto è ben approfondito in questo articolo della Newsletter Privacy Chronicles) pensa che probabilmente Google non sarebbe neanche mai nata senza la politica. Infatti, Google ha modificato il proprio business model nel 2003 sotto un contratto speciale con la CIA.2
E che dire del non velato attacco di Ferraris a Bitcoin? Ogni buon presupposto si deteriora quando viene incriminata la possibilità di rimanere proprietari dei dati che si producono. L’egoismo di cui parla Ferraris, infatti, non è il male dell’umanità, ma è proprio ciò di cui l’umanità ha bisogno, visto che l’egoista, quello buono, è l’uomo indipendente dagli altri, né padrone e né schiavo di nessuno e quindi essenza di una forza vitale autonoma. E anche Bitcoin è espressione di quella forza vitale di cui il mondo economico e la finanza moderna hanno bisogno. E anche gli uomini ne hanno bisogno, ne hanno bisogno disperatamente. Perché Bitcoin è nato, tra le altre cose, per ridare alle persone la possibilità di combattere per la propria privacy. La privacy, infatti, che è un diritto naturale ed individuale, viene trattata come un bene comune. E non lo è. Così come la mente non è un patrimonio collettivo, ma un attributo individuale.
Sì, compagni, il comunismo si è realizzato - La Repubblica
How the CIA made Google - Nafeez Ahmed